Tocca a lei, signor Fairy.
Furono queste le prime parole a rompere il silenzio che, da qualche secondo, si era adagiato nella stanza. Un salotto arredato in stile coloniale, dove nessun mobile contrastava il colore caldo del pavimento: un parquet scricchiolante, ma ancora lucido, vissuto.
La luce soffusa che avvolgeva l’ambiente era interrotta solo dai riflessi del fuoco nel camino. Un calore vivo, vibrante, in netto contrasto con la pioggia che, da ore, cadeva insistente. In quel periodo, il cielo di Londra oscillava tra un grigio latteo e un azzurro cobalto, segno di una civiltà industriale in piena crescita. Dalla finestra, si scorgevano gli alberi di Kensington Park perdere le prime foglie.
“Pazienza Signor Wood, pazienza!”
“Ecco, vedo le sue tre sterline e rilancio di altre due.”
Rispose il signor Fairy, che dopo aver cambiato le carte era sicuro di avere un buon punto, due assi e due donne.
Ora toccava a Torton e Crest. Entrambi passarono la mano: non erano giocatori d’azzardo, e la serata non aveva mai visto puntate così alte.
Wood fissò Fairy negli occhi. L’invito al rilancio lo eccitava: era certo di poter battere l’amico con i suoi tre jack. Così vide le due sterline e rilanciò a cinque.
“Accidenti a te” esclamò Fairy, “possibile che tu debba sempre esagerare?”
Non era sicuro della sua doppia coppia. Distolse lo sguardo dalle carte e lo lasciò vagare per la stanza. La porta, poi una credenza… infine si posò su una statuetta di legno: una volpe ritta su due zampe, alta poco più di trenta centimetri. Il tempo l’aveva segnata, era scheggiata in più punti, ma emanava un fascino strano, magnetico.
Fairy la fissava, incapace di distogliere lo sguardo, finché Wood non lo richiamò al gioco. Tornò alle carte.
Tre assi.
Una delle due donne era diventata un asso!
Era confuso. Ricordava male? O era davvero accaduto qualcosa? Con un’occhiata rapida alla statuetta, decise: puntò le sue cinque sterline.
Vinse. E sapeva che era merito della volpe.
Kadish era il dio del tempo e dei mutamenti atmosferici per gli indigeni di un piccolo villaggio del Venezuela. Aveva la forma di una volpe con le zampe anteriori rivolte al cielo e quelle posteriori ben salde sulla terra. Governava l’aria e placava la terra.
Un falegname lo aveva scolpito da un ramo di quercia. Gli abitanti del villaggio gli costruirono una capanna: un semplice tetto di paglia, sorretto da quattro grossi pali. A Kadish piaceva moltissimo, e benché fosse un dio minore, non scordava mai di far piovere durante un periodo di siccità o di far uscire il sole quando le nuvole non davano tregua.
Ed erano miracoli che non faceva senza sforzo, perché come ho detto era un dio minore, e certi prodigi per lui non erano certo cosa da niente. E tutti i giorni gli indigeni portavano doni e cibo ed esclamavano:
“o Grande Kadish, tu sei la nostra vita ed il nostro conforto!”
e Kadish in risposta faceva sbocciare fiori o calmava i venti.
Era felice, perché aveva un popolo tutto suo, che lo amava e venerava, mai avrebbe voluto di più.
E il tempo passava e le stagioni si susseguivano, finché un giorno Kadish vide una schiera di indigeni salire la collinetta dove era la sua capanna. Il sacerdote portava con sé una nuova statuetta: una lepre, intagliata nello stesso legno, ma levigata, lucente. Non aveva ancora conosciuto le ferite del tempo.
Finalmente arrivarono sulla cima, e gli indigeni misero la statuetta vicino Kadish e dissero:
“o Grande Kadish, da oggi avrai compagnia, è arrivato Skar che tutto sa” e poi:
“viva Skar, grande e potente, viva Kadish e Skar”.
E posizionarono i doni per gli dei nella cesta che prima era solo di Kadish.
Kadish era geloso, era rosso di rabbia, non riusciva a capire perché gli indigeni avessero bisogno di Skar. Lui era l’unico, lo era sempre stato, non poteva sopportare la sua presenza, e avrebbe dovuto farlo capire a tutti. Così non fece più piovere, e il raccolto degli indigeni seccò, poi fece venire l’inverno e poi ancora la siccità. E gli indigeni ogni giorno portavano doni a Kadish e Skar e dicevano “o grande Kadish, cosa abbiamo fatto di male? saggio Skar, cerca, per favore, di quietare tuo fratello”.
Ma Skar non avrebbe mai fatto nulla del genere, voleva prendere il posto di Kadish, e dedicava tutte le sue forze a rallentare o ad annullare i suoi miracoli, benevoli o malefici che fossero, e Kadish questo lo sapeva. Il suo potere non era infinito, ma era ormai da tempo che si concentrava per far accadere qualcosa di tremendo. Un terremoto, voleva scuotere la terra e liberarsi del rivale!
Aspettò, ed aspettò ancora, uno sconvolgimento del genere richiedeva molte forze, ma alla fine il giorno arrivò e liberò tutta la sua forza in un sol colpo. La terra si aprì e risucchiò ogni cosa, le case tremarono e gli abitanti erano terrorizzati. Anche la capanna crollò: uno dei pali cedette, e le due statuette vennero sepolte sotto le macerie. E dimenticate.
Che fai Fairy? A cosa pensi?” chiesero gli ospiti.
“Noi ce ne andiamo, è tardi, ci vediamo domani al cantiere, e smettila di fissare quel camino”.
Ma Fairy non guardava il camino. Pensava ad un viaggio, anni prima, quando arrivò in un villaggio del Venezuela e lì gli fu indicata una collinetta ritenuta un tempo sacra dai locali. C’erano solo un mucchio di pietre ed erbacce, ma guardando meglio si potevano vedere due statuette, una a forma di Lepre, spezzata, ed un’altra a forma di Volpe, intatta.
Fairy la prese e la portò con se, e da quel giorno non se ne separa, ne è continuamente attirato, è come se la adorasse, e questo Kadish lo sa, per questo durante la serata gli passò un asso.
Fine